Chi è stato Pierluigi Torregiani? La storia vera del gioielliere di Ero in guerra ma non lo sapevo

Milano, 16 febbraio 1979: 43 anni fa veniva ucciso Pierluigi Torregiani.

La sua storia stasera andrà in onda in prima serata su Rai Uno con il film evento “Ero in guerra ma non lo sapevo“, diretto da Fabio Resinaro e con protagonisti Francesco Montanari, nel ruolo di Torregiani, e Laura Chiatti che interpreta Elena, moglie del gioielliere.

Ero in guerra ma non lo sapevo

La pellicola è stata tratta dall’omonimo romanzo scritto nel 2006 dal figlio adottivo di Torregiani, Alberto, rimasto, a soli 15 anni, sulla sedia a rotelle a seguito dell’agguato organizzato dai Proletari Armati per il Comunismo, una formazione terroristica di estrema sinistra che si formò in Lombardia nel 1977, tra i cui leader spicca Cesare Battisti, condannato a due ergastoli e tredici anni e che venne arrestato in Brasile nel 2007 per poi essere liberato nel 2011 in seguito alla scelta della Corte suprema brasiliana di non estradarlo. Battisti, alla fine, è stato catturato nel gennaio 2019 in Bolivia ed estradato in Italia.

Gli asfissianti anni di piombo in Italia

Stiamo parlando di una storia vera, fuligginosa, sporca di ruggine, intrisa di sangue e che lascia con l’amaro in bocca ed un macigno sul cuore, perché questi sono stati gli anni di piombo in Italia. La violenza, come un tornado, attirava tutto, la politica si radicalizzava mettendo in scena tutta la sua forza dirompente e distruttrice tramite la strategia della tensione, una serie preordinata e ben congegnata di atti terroristici, volti a creare in Italia uno stato di tensione costante e una paura diffusa nella popolazione, tali da far giustificare o addirittura auspicare svolte di tipo autoritario. Da una parte i fascisti, dall’altra i comunisti; nel mezzo chiunque fosse nel posto sbagliato al momento sbagliato.

E’ il romanzo di una strage lunga vent’anni: dalla strage di Piazza Fontana, di piazza della Loggia a Brescia, della stazione di Bologna, al sequestro e all’uccisione di Aldo Moro, alla morte “accidentale” dell’anarchico Giuseppe Pinelli nella questura di Milano, all’assassinio del poliziotto Luigi Calabresi, che pagò con la sua stessa vita il volo dalla finestra del ferroviere Pinelli, all’esecuzione di Pierluigi Torregiani. Sono tutte vittime legate fra loro, impensabili separatamente, in calce per sempre con la storia più buia e recente del nostro Paese.

Pierluigi Torregiani, il gioielliere a cui non piaceva farsi mettere i piedi in testa

“Sarebbe stato facile fare di mio padre l’innocente con cui tutti solidarizzano da subito. Invece nel film abbiamo voluto raccontare una verità più ricca e complessa. Mio padre era un po’ impulsivo, a volte forse arrogante, uno a cui non piaceva farsi mettere i piedi in testa. Niente di più. Tutto questo è diventato la sua condanna”, ha spiegato Alberto in un’intervista rilasciata al Corriere della Sera.

La condanna di cui parla Alberto avvenne il 22 gennaio 1979. Dopo un’esposizione di gioielli presso una televisione privata, il gioielliere subì un tentativo di rapina a opera di alcuni malviventi del terrorismo rosso, mentre stava cenando in una pizzeria, il ristorante Il Transatlantico, di via Marcello Malpighi insieme ai suoi figli e agli amici.

Pierluigi Torregiani

Torregiani e uno dei suoi accompagnatori, anch’egli armato, reagirono al tentativo di rapina: ne conseguì una colluttazione con una sparatoria. Morì uno dei rapinatori, Orazio Daidone, 34 anni e un avventore, Vincenzo Consoli, commerciante catanese, e restarono ferite altre persone e clienti del ristorante, tra cui lo stesso Torregiani.

Eppure, secondo il figlio, i colpi mortali che uccisero Daidone e Consoli non partirono dalla pistola del gioielliere. Ma è proprio da quella storia che ha inizio la sua fine, una vittima collaterale di un sistema marcio che ne fece un simbolo, non richiesto, della lotta ai comunisti. Ecco perché Torregiani era in guerra ma non lo sapeva.

Genesi di un omicidio

Alberto sostiene che i PAC scelsero il padre come vittima sacrificale perché era stato diffamato dalla stampa locale e presentato come “giustiziere” – come titolò la Repubblica all’epoca – e “sceriffo” contro gli “espropriatori proletari”: “Non servì a nulla la lettera di rettifica che mio padre mandò alla Notte e a la Repubblica, che lo aveva descritto come un cacciatore di teste a caccia di rapinatori” – spiegò Alberto sempre al Corriere – “Durante quella rapina si è difeso solo perché aveva accanto sua figlia. Nei giorni seguenti stava soltanto nascondendo a tutti noi la sua paura. Si teneva tutto dentro: anche la consapevolezza che prima o poi qualcosa gli avrebbero fatto”. Così iniziarono le prime minacce.

Gli venne assegnata, così, una scorta, che però il pomeriggio dell’agguato dovette lasciarlo per accorrere sul luogo di una rapina. Secondo Cesare Battisti, la PAC considerava Torregiani alla stregua Lino Sabbadin, macellaio militante del Movimento Sociale italiano ucciso lo stesso giorno, come uomini di estrema destra che praticavano autodifesa,  sempre armati e giustizieri contro la sinistra.

In questo clima di tensione e paura crescente, crebbe l’esecuzione. Intorno alle 15.00 del 16 febbraio, mentre stava aprendo il negozio insieme ai figli, Torregiani venne ucciso, raggiunto da alcuni colpi di pistola. A sparare furono alcuni membri della PAC, una vendetta per il rapinatore rimasto ucciso nella rapina finita male al ristorante neanche un mese prima.

Per l’omicidio saranno condannati come esecutori materiali Giuseppe Memeo e Gabriele Grimaldi. Per concorso morale, in quanto partecipante alla riunione in cui si decise l’omicidio, sarà condannato tra gli altri anche Cesare Battisti. Così si concluse la guerra di Pierluigi ed iniziò la battaglia di Alberto.

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