Bomba clamorosa nel caso di Gianmarco Pozzi, indagini depistate | Scatta il reato di “corruzione processuale”

A distanza di quasi due anni esatti dalla morte del giovane campione di kick boxing, emerge l’elemento che, su tutti, conferma quanto sospettato dalla famiglia: la corruzione delle indagini

Arriva così, come un fulmine a ciel sereno la notizia che scuote dalle fondamenta le indagini sulla morte di Gianmarco Pozzi.

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Una notizia che la famiglia aspettava da tempo, e che conferma, in qualche modo, che gli sforzi messi in atto in questi due anni intercorsi dalla morte del giovane pugile non sono stati vani.

Ma, soprattutto, questa notizia getta luce come mai accaduto fino ad ora su un sistema processuale che è stato, fin dai primi istanti, connotato da notizie incomplete, depistaggi e mancata trasparenza da parte delle istituzioni.

Sono parole forti, queste, ma che rendono giustizia e contezza di quanto accaduto nel giallo di Ponza, dove, finalmente, da parte di quelle stesse istituzioni arriva, in qualche modo, un’ammissione di colpevolezza.

Ma non solo. Dietro questa novità non va visto unicamente un qualcosa di negativo, anzi.

Dimostra come lo stesso sistema giudiziario sia in grado, ogni tanto, di riconoscere i suoi limiti, e come in qualche modo sia un segnale di giustizia non solo verso la famiglia, ma verso tutti i cittadini.

Si tratta di un capo di accusa quanto mai clamoroso, che difficilmente viene messo in piedi dalle istituzioni nei confronti delle stesse: quello di corruzione processuale.

Nel caso Pozzi c’è stata “corruzione processuale”: esplode la bomba nel giallo di Ponza

Abbiamo visto in differenti articoli il caso di Gianmarco Pozzi, il giovane campione di kick boxing 28enne ritrovato senza vita all’interno dell’intercapedine di un’abitazione a Ponza il 9 agosto del 2020.

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Visione aerea dell’intercapedine dove è stato trovato il corpo di Gianmarco Pozzi e del campo antistante

Nonostante i vistosi ematomi, le ferite di varia natura rinvenute sul corpo e l’ambiguità stessa del ritrovamento del corpo, oltre che l’enorme ferita alla testa, il fatto venne inizialmente liquidato come una caduta accidentale.

Fra errori procedurali e ipotesi fuorvianti: qualcosa non torna già nei primi istanti del Giallo di Ponza

Ma, fin dai primi istanti di questa tragedia, era chiaro a tutti che qualcosa non tornava.

I giornali locali avanzarono ogni ipotesi, ipotesi che non si sa chi, ai tempi, fornì.

Fra chi parlava di caduta accidentale mentre faceva parkour (impossibile, considerando la presenza di una sola abitazione in loco), e chi scriveva che il giovane si trovasse lì a tagliare il canneto del terrazzamento antistante l’abitazione (per quale motivo? A che titolo?) e chi ha persino ipotizzato che si trovasse lì per rubare, non è chiaro chi abbia fornito ai giornalisti a ridosso del ritrovamento del corpo queste indicazioni.

Ipotesi, queste, che difficilmente trovavano riscontro con la realtà.

Ma sono state proprio quelle ipotesi a prevalere, al punto che non solo la temperatura cadaverica non venne rilevata al momento della morte, ma che la zona adiacente il ritrovamento del corpo non venisse recintata.

Anzi. Sotto indicazione dei Carabinieri venne fatta ripulire con la candeggina.

E da lì giù al discredito verso la vittima. Venne comodo, infatti, far ricadere su Gianmarco Pozzi la causa stessa della sua morte, mettendo in moto una macchina del fango finalizzata a gettare discredito su di lui facendo leva sull’utilizzo di sostanza stupefacenti.

Gianmarco era caduto perché sotto allucinazione di cocaina. Gianmarco non mangiava da giorni quindi non era in grado di intendere e volere. Gianmarco stava delirando perché era troppo “fatto” e aveva paura lo trovasse la finanza.

Chi era con lui quella notte, però, sa bene che non è così, e questo ha dato forza alla famiglia di procedere nella ricerca di giustizia.

Sono loro su tutti, come già anticipato, a non credere all’ipotesi che si trattasse di un fatale incidente, portando avanti una serie di complesse indagini parallele a quelle ufficiali per omicidio, oggi ancora a carico di ignoti. 

C’entrano i depistaggi del telefono nel reato di corruzione processuale del caso Pozzi?

Ed è proprio nelle indagini ufficiali che bisogna andare a scavare per comprendere la portata di questo caso di cronaca nera.

Non si tratta, infatti, solo della morte di un giovane ragazzo che deve avere giustizia, ma di comprendere come e perché le forze dell’ordine non abbiano seguito l’iter standard che bisogna seguire in questi casi.

Ma non solo.

In più occasioni abbiamo parlato di uno degli elementi più importanti del caso: quello riguardante il telefono della vittima.

Secondo la ricostruzione fornita dai sanitari del 118 ai famigliari di Pozzi questi ultimi, accorsi sul luogo della morte del 28enne, hanno visto la presenza del cellulare sul posto.

Cellulare che è stato per altro individuato dalle forze dell’ordine accorse sul posto.

E’ uno dei Carabinieri, stando a quanto dichiarato dai soccorritori, a notare la presenza di tre chiamate perse da un numero che Gianmarco non aveva memorizzato, numero che, al fine di poter effettuare il riconoscimento del cadavere, è stato chiamato senza risposta.

Il telefono, dunque, viene ritrovato intatto.

Ed è qui che inizia una lunga serie di tira e molla che portano a un esito sconcertante, ossia la riconsegna del telefono che è totalmente distrutto ma, soprattutto, disabilitato.

A ricostruire la questione del telefono era stato l’avvocato della famiglia, Fabrizio Gallo, che intervistato in esclusiva per Periodico Italiano aveva ricostruito l’assurda vicenda del telefono.

Il telefono viene ritrovato distrutto dal primo perito, che tuttavia non specifica che la videocamera del cellulare sembra essere stata distrutta da un punteruolo.

Ma da chi?

Il telefono, all’inizio, viene trattenuto nella caserma dei Carabinieri, dove rimane senza essere mai dato al perito se non a seguito dell’insistenza da parte della famiglia.

In una prima fase il cellulare viene consegnato al perito incaricato dal pm, Querceto, fase nella quale la famiglia voleva, giustamente, venire a conoscenza di come si stesse procedendo con il dispositivo, essendo una delle uniche potenziali prove a disposizione.

A seguito degli interrogativi da parte della famiglia, il pm di allora rispose asserendo che il cellulare fosse stato inviato in Germania per poter essere analizzato in modo più approfondito.

Avviene, poi, un cambio di pm, e le redini delle indagini passano dalla Siravo a Flavio Ricci.

E’ quest’ultimo a chiarire come non fosse vero che il cellulare si trovasse in Germania, ma che fosse ancora nelle loro mani.

A quel punto, sotto insistenza sempre dei famigliari rappresentati dal legale, il telefono viene consegnato al nuovo perito.

La famiglia viene chiamata come parte per assistere alle operazioni peritali, ed è lì che avviene un’assurda vicenda.

Al telefono viene sostituito lo schermo, elemento deducibile dal fatto che ci fosse la pellicola nuova.

Lo schermo, come anticipato, era dunque rotto, ma rimane da chiarire chi possa averlo fatto.

Ma soprattutto l’interrogativo più grande è questo: come è possibile che il telefono possa essere stato disabilitato?

Si tratta di un i-phone, per altro, dove la procedura è particolarmente lunga.

Per ulteriori chiarimenti vi rimandiamo a questo articolo dove ne abbiamo già trattato.

Chi ha rotto, quindi, il telefono di Gianmarco? Ma soprattutto, come è possibile che un perito incaricato dal tribunale riconsegni il cellulare disabilitato quando è un atto del tutto volontario?

Cos’è il reato di corruzione processuale

E’ forse dietro questi interrogativi che si nasconde la verità dietro l’apertura del fascicolo per il reato di corruzione processuale.

Secondo l’art. 374 del Codice Penale,

“Chiunque, nel corso di un procedimento civile o amministrativo, al fine di trarre in inganno il giudice in un atto d’ispezione o di esperimento giudiziale, ovvero il perito nella esecuzione di una perizia, immuta artificiosamente lo stato dei luoghi o delle cose o delle persone, è punito, qualora il fatto non sia preveduto come reato da una particolare disposizione di legge, con la reclusione da uno a cinque anni”;

“La stessa disposizione si applica se il fatto è commesso nel corso di un procedimento penale, anche davanti alla Corte penale internazionale, o anteriormente ad esso; ma in tal caso la punibilità è esclusa, se si tratta di reato per cui non si può procedere che in seguito a querela, richiesta o istanza, e questa non è stata presentata.”

Un reato gravissimo, che difficilmente viene messo in mezzo a cuor leggero dai pm.

E che, soprattutto, non è stato aperto a carico di ignoti.

Qualcuno, dunque, dovrà rispondere dinanzi la giustizia di quanto commesso nella fase delle indagini.

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